Un altro capolavoro dei danesi Playdead e un altro ragazzino solo e abbandonato costretto a subire innumerevoli morti sadiche
Inside è un gioco puzzle platform con un gameplay 2.5D del cui sviluppo e pubblicazione sono responsabili i geni danesi della Playdead, già noti per l’indimenticabile Limbo. Uscito nel 2016 per PlayStation 4, Xbox One e Microsoft Windows, Inside ha successivamente visto la luce anche per iOS a dicembre 2017 e Nintendo Switch a giugno 2018. A giugno del 2020 ne è uscita una versione per macOS.
Siamo in un contesto apparentemente distopico in cui un ragazzino dovrà intraprendere un cammino attraverso pericoli mortali, risolvendo enigmi piuttosto elaborati.
MA QUANTO CORAGGIO HANNO QUESTI BAMBINI INDIFESI?
Anche qui, come in Limbo, il ragazzino protagonista inizia il suo viaggio attraversando una foresta. Fa buio, si sente solo il rumore dei suoi passi sul fogliame, poi, all’improvviso, si trova in prossimità di un camion in partenza, e il ragazzino si accovaccia per non farsi vedere.
Poco dopo, degli uomini con delle torce costringono il ragazzo a procedere con cautela per non farsi scoprire e da qui iniziamo a capire che questo giovane protagonista o è in fuga da qualcosa, o è comunque ben consapevole della minaccia dalla quale tenta di stare alla larga.
Filo spinato, cani da guardia, autovetture in pattugliamento munite di faretti e quant’altro sono un chiaro segno che ci troviamo in un contesto pericoloso, e questo ragazzo, solo e abbandonato, pare essere circondato da innumerevoli minacce.
Una volta uscito dalla foresta, dopo essere fuggito dalle guardie, il giovane protagonista anonimo, si trova in un campo di mais da cui arriverà finalmente in una zona abbandonata che sembra essere una fattoria. La pioggia scende dritta e copiosa e il ragazzo, determinato ad uscire da questa inquietante situazione, procede senza timore, ma sempre con estrema accortezza.
È a questo punto che accade la prima svolta: dopo aver assistito alla fuga di maiali spaventati da vermi parassiti, il ragazzo troverà uno strano elmetto che, una volta indossato, si scoprirà essere un potente strumento per il controllo di corpi senza vita, usati come forza lavoro. Man mano che il protagonista continua la sua fuga, attraverso questi luoghi apparentemente abbandonati e lugubri, i corpi controllabili dall’elmetto, diventeranno utili per trovare vari trucchi per poter proseguire nel percorso.
IL POTERE DELLA MENTE E L’IMPORTANZA DI AVERNE IL CONTROLLO
Strategie di controllo, macchinari misteriosi e piani poco rassicuranti, sono ormai il chiaro segno dell’esistenza di un’organizzazione dalla quale ci dobbiamo almeno liberare. Non dico sconfiggere, perché anche in questo caso, come in Limbo, il protagonista non sembra avere altre abilità se non la capacità logica di trovare soluzioni ingegnose per il superamento dei vari ostacoli.
Dopo una lunga esplorazione subacquea, guidando un piccolo e bizzarro sottomarino sferico, e successivamente nuotando, grazie a un dispositivo donato da una creatura che permetterà al ragazzo di respirare, giungeremo in un enorme luogo pieno di strutture in parte sommerse dall’acqua.
Siamo dunque arrivati al nocciolo della questione: l’esistenza di una serie di laboratori segreti in cui degli scienziati realizzano esperimenti subacquei sui poveri corpi di coloro che non sembrano più essere nemmeno degli individui, se non per il loro aspetto antropomorfo.
Il ragazzo, seguito da un numero sempre più cospicuo di questi corpi che in parte lo aiutano e in parte sembra che possano raggiungere la libertà grazie a lui (questo aspetto di Inside mi ha ricordato molto Oddworld, ma l’atmosfera è decisamente diversa), raggiunge una camera sferica al cui interno si trova una creatura deforme che sembra fatta di tanti corpi: l’Huddle.
Il ragazzino libererà l’Huddle, il quale lo ingloberà nel suo ammasso informe e successivamente, nel tentativo di fuggire, correndo e rotolando sugli arti che sporgono da tutti i lati, travolgerà e ucciderà tutto ciò che incontra.
Ci sono due finali. Dopo che gli scienziati sopravvissuti catturano l’ Huddle, questo riesce nuovamente a fuggire e nel primo finale, scende una collina nella foresta e si ferma su una costa erbosa inondata di luce.
Nel secondo finale, quello alternativo, che avverrà se il ragazzo disattiverà durante il gioco delle sfere di luce nascoste nei vari bunker, avremo accesso ad una nuova area in cui si trova una banca di computer e un casco per il controllo mentale, collegato ad una spina. Staccando la spina, il ragazzo si trasformerà in uno dei tanti corpi inanimati.
LA SCIENZA E LA SUA ETERNA AMBIVALENZA
Esattamente come per Limbo, anche in questo caso la Playdead non ha voluto dare alcuna spiegazione, lasciando a noi fruitori la possibilità di trovarne una.
Dunque, qual è la vostra? La teoria del crudele esperimento eseguito per i soliti nefandi e remunerativi scopi, la metafora della malattia, secondo cui il ragazzino, distinguibile grazie a quel tocco di rosso della maglia che indossa e che, presumibilmente, rappresenterebbe un virus, oppure l’esatto opposto, ovvero che il ragazzino incarni la cura della malattia?
C’è anche chi pensa sia l’ Huddle il vero soggetto controllante, che ha spinto il giovane a compiere il periglioso viaggio allo scopo di farsi liberare.
Si tratta, ancora una volta, di dare libero sfogo alla propria immaginazione e, tutto sommato, di elementi per creare una teoria plausibile ce ne sono molti, così come si potrebbe vivere l’esperienza di gioco senza porsi chissà quante domande, un po’ come ho fatto io. Me lo sono goduta senza troppo cercare un senso, perché, a mio avviso, è proprio l’esperienza visiva e di gioco a fare di questo titolo un altro indiscusso capolavoro.
LA SINTESI DELL’ESTETICA COME FORMA ARTISTICA ASSOLUTAMENTE EFFICACE
Lo stile estetico della Playdead ormai è inconfondibile: monocromie, forme ridotte all’osso, atmosfere cupe e misteriose, rimandi evidenti ad un certo tipo di cinema, come quello espressionista tedesco nel caso di Limbo. In Inside, tuttavia, c’è un’aggiunta di elementi a renderlo più tridimensionale e soprattutto emblematico.
Infatti, a differenza di Limbo, qui sono presenti alcuni elementi cromatici che servono a dare un senso di profondità alle location, ad evidenziare delle zone o, nei casi più eclatanti quali la maglietta rossa del protagonista o il sangue presente a seguito delle solite super cruenti morti, a creare dei simbolismi.
Il concept artist Morten Bramsen (sì, sempre lui), ha creato l’ Huddle nel 2010. Sulla base del suo disegno iniziale, l’animatore Andreas Normand Grøntved, così come il resto del team artistico hanno preso spunto per l’intera natura visiva e lo stile artistico del gioco.
È curioso sapere che per l’ Huddle, Grøntved ha preso ispirazione dalla forma demoniaca del dio cinghiale della principessa Mononoke, Nago. Ha poi sviluppato le animazioni iniziali usando quella che lui stesso ha definito “Huddle Potato”, che, grazie alle geometrie semplificate del modello, è stato in grado di dimostrare come l’essere si sarebbe mosso e avrebbe interagito con l’ambiente.
Mentre la maggior parte delle altre animazioni di gioco erano basate su una combinazione di movimenti scheletrici preimpostati insieme al motore fisico, l’Huddle doveva essere animato quasi interamente da un modello fisico personalizzato sviluppato da Thomas Krog e implementato da Lasse Jon Fulgsang Pedersen, Søren Trautner Madsen e Mikkel Bøgeskov Svendsen. Questo modello utilizza una simulazione a 26 corpi del nucleo dell’Huddle, guidata da una rete di impulsi basata sulla direzione del giocatore e sull’ambiente locale, che ha permesso all’Huddle di riconfigurarsi secondo necessità in determinate situazioni, come l’adattamento in spazi ristretti.
Per ultimo, ho trovato molto interessante il fatto che per la pelle hanno creato un mix di stili artistici presi in prestito dalle sculture di John Isaacs e dall’arte di Jenny Saville e Rembrandt.
L’ASSENZA DI MUSICA CHE LASCIA IL POSTO AD UNA PRESENZA SONORA PERSINO PIÙ EFFICACE
Ispirato ai B-movie horror degli anni 80, Martin Stig Andersen in collaborazione con SØS Gunver Ryberg, ha composto la colonna sonora di Inside, facendo largo uso dei sintetizzatori. Sempre a paragone con Limbo, anche qui, Anderson non ha voluto creare una vera e propria colonna sonora, quanto piuttosto suoni particolari ed evocativi, come quelli riprodotti utilizzando un teschio umano come strumento da cui far entrare e uscire il suono, un suono che potesse ricondurre a quello delle “ossa”, creando quest’atmosfera cupa e fredda, adattissima al contesto.
Questa volta, Andersen ha lavorato a stretto contatto con gli sviluppatori, realizzando un’integrazione tra elemento visivo ed elemento audio, come ad esempio i movimenti del torace del protagonista durante la respirazione, che corrispondono ad effetti sonori in perfetta sincronia.
La Playdead ha iniziato a lavorare su Inside poco dopo il rilascio di Limbo, utilizzando lo stesso motore di gioco ormai personalizzato, passando tuttavia a Unity per semplificarne lo sviluppo, e aggiungendo le proprie routine di rendering, successivamente rilasciate come open source. Il gioco è stato parzialmente finanziato da una sovvenzione del Danish Film Institute.
Ormai è piuttosto evidente che questo gran team danese abbia deciso di creare un forte stile riconoscibile, non solo per quanto riguardo l’aspetto grafico, ma anche per il game design. Anche qui abbiamo sostanzialmente un platform-puzzle, ma con sistemi più complessi, sia per quanto riguarda l’importanza della componente fisica che per il sistema “trial & error”, che significa sostanzialmente imparare dai propri errori. Anche in Inside, le brutali morti del protagonista (qui rese persino più grafiche rispetto a Limbo) sono inevitabilmente frequenti, ma allo stesso tempo i checkpoint sono altrettanto frequenti. Questo aspetto permette al giocatore di tentare quante più volte necessita il superamento e la risoluzione dei vari enigmi.
Gli enigmi sono inizialmente piuttosto facili, fungendo da breve ma esaustivo tutorial per le meccaniche di gioco, tuttavia, man mano che si prosegue, si fanno più elaborati e complessi, costringendo il giocatore a fare buon uso delle lezioni impartite in precedenza e imparate a caro a prezzo (per il povero protagonista).
C’è anche l’aggiunta di una piccola componente esplorativa, utile soprattutto per il ritrovamento delle sfere che, una volta collezionate tutte, vi permetteranno di sbloccare il finale alternativo.
È un gioco che stuzzica le nostre capacità di ingegno e ci fa riflettere, come sempre, su una tematica fondamentale: la mente, a volte, è più potente della fisicità o delle armi per riuscire a salvarsi da nemici sproporzionatamente più forti e più grandi di noi.
Si sta per caso di nuovo alludendo alla rivincita dei nerd?
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