Un viaggio psicologico tra culti, visioni e orrori. Quando la cura diventa la malattia.

The Chant – Story Trailer

The Chant è un survival horror in terza persona uscito nel 2022 su PC e console di generazione attuale. È uno di quei giochi che esplicitano fin dall’incipit che cosa vuole essere: non un parco divertimenti con cento sistemi sovrapposti, ma un’esperienza focalizzata in cui atmosfera, vulnerabilità e gestione dello stress sono i tre cardini.

L’ambientazione, un ritiro olistico su un’isola remota del Pacifico Nord-occidentale, rovescia il cliché del “luogo maledetto” in chiave contemporanea: non una dimora gotica, ma un posto dove si cerca la cura e in cui proprio la ricerca di benessere diventa il veicolo dell’incubo. Questo ribaltamento è la lente con cui leggere tutto il gioco.

La premessa narrativa è quindi semplice: durante un rito di “canto” collettivo, un esperimento spirituale andato storto spalanca il Gloom, una dimensione psichedelica che reagisce alle emozioni e le rifrange in fenomeni fisici. Da quel momento, colore e suono si fanno sostanza ludica: il paesaggio cambia pelle, creature prismatiche emergono come coagulazioni di paure, e la protagonista, Jess, deve sopravvivere bilanciando tre risorse identitarie: Mind, Body, Spirit. Questa triade indirizza la progressione, modella abilità e rischi, e soprattutto definisce il “tono morale” del nostro percorso, fino a determinare il tipo di epilogo.

Sul piano strutturale, la storia si evolverà tra zone principali che si aprono poco alla volta, scorciatoie che si sbloccano, ritorni ragionati che fanno rileggere luoghi già visitati con strumenti nuovi, mostrando una ricchezza nella densità degli ambienti, nei documenti che stratificano la storia del culto anni ’70 e nei micro-puzzle ambientali che chiedono attenzione più che virtuosismo. Il ritmo alterna esplorazione tesa, scontri essenziali e momenti di raccoglimento in cui riorganizzare risorse e pensieri.

La durata si assesta su 6-8 ore per una prima run, con un tasso di rigiocabilità ancorato ai tre finali. Possiamo inserirlo tra i survival per le sue meccaniche: raccogliere, scegliere, rischiare. Le armi sono improvvisate, la resistenza fisica non è infinita, la mente può cedere al panico se sovraccaricata di stress; i consumabili (erbe, infusi, oggetti rituali) diventano pendoli che tengono in equilibrio ciò che siamo disposti a spendere ora rispetto a ciò che potremmo dover affrontare tra dieci minuti.

Ne risulta un’azione poco spettacolare nel senso tradizionale ma intensa perché ogni scelta pesa. Lo stealth leggero e le abilità spirituali (repulsioni, aure protettive, picchi di concentrazione) offrono alternative tattiche senza trasformare Jess in un supereroe: la sua forza sta nel saper valutare.

L’identità estetica è quella psichedelica, anni ’70, con cromie acide e geometrie prismatiche. Non è decorazione, è linguaggio. Quando il Gloom filtra nella realtà, l’isola fatta di legni umidi, ferraglia ossidata, rocce scabrose, si copre di una patina luminosa che è insieme bella e disturbante.

Nell’ecosistema degli horror moderni, The Chant occupa con consapevolezza la fascia AA: budget concentrato, ambizione mirata, pochi sistemi ben allineati. In questo spazio, il gioco convince perché non finge di essere altro: dichiara i propri limiti (combat essenziale, animazioni talvolta rigide) e li compensa con coerenza artistica, world building e un audio design che sa mettersi al servizio dell’atmosfera.

Così come dichiarato è il rapporto con il giocatore: The Chant non cerca di compiacerlo con gratificazioni continue, ma chiede disponibilità all’ascolto, attenzione ai dettagli, pazienza nell’esplorare. In cambio, offre un’isola che parla e che cambia letteralmente volto quando il Gloom alza il volume. È un’esperienza che funziona meglio se la si affronta con cuffie e luci basse, lasciando che suoni e cromie prendano il posto dei consueti colpi di scena.

Il gioco si rivolge a chi apprezza i survival concentrati, le ambientazioni coese e la contaminazione tra horror psicologico e suggestioni esoteriche.

Identità e creatività: Brass Token e Prime Matter

Alla base di The Chant c’è uno studio indipendente canadese, Brass Token, con sede a Vancouver. La realtà è stata fondata nel 2017 da un piccolo nucleo di veterani dell’industria, con l’intenzione esplicita di creare esperienze narrative e sensoriali compatte, in grado di distinguersi dalle grandi produzioni.

La figura più riconoscibile all’interno del team è Mike Skupa, direttore creativo e co-fondatore. Skupa non è un nome qualsiasi: prima di dare vita a Brass Token ha lavorato in Rockstar Vancouver, dove ha firmato come lead designer l’apprezzato Bully (2006), e successivamente ha collaborato su altri titoli ad alto budget.

Accanto a Skupa troviamo professionisti provenienti da vari settori: artisti 3D, designer e soprattutto tecnici audio, perché fin dalle prime interviste lo studio ha dichiarato che il suono sarebbe stato un pilastro identitario di The Chant. In effetti, la direzione musicale è stata affidata a Paul Ruskay, evidenziando la volontà di dare un’impronta autoriale non solo visiva ma anche sonora al progetto.

Brass Token, pur essendo un team relativamente contenuto, ha saputo costruire una rete di collaborazioni locali e internazionali, riuscendo così a mantenere un livello produttivo competitivo rispetto ad altri studi AA.

Sul fronte editoriale, The Chant è stato pubblicato da Prime Matter, etichetta interna a PLAION (ex Koch Media), fondata nel 2021 con l’obiettivo di supportare titoli “di fascia media” ma dall’identità forte. Prime Matter nasce come incubatore di esperienze capaci di attirare una nicchia di appassionati grazie a un’estetica riconoscibile o a un’idea di design ben definita.

In questo senso, The Chant rappresenta un caso scuola: un progetto che probabilmente avrebbe faticato a trovare spazio sotto un’etichetta più mainstream, ma che trova in Prime Matter un alleato perfetto. La sinergia tra sviluppatori ed editore si dipana, in primo luogo, nella comunicazione del gioco: i trailer e i materiali promozionali puntano tutto sull’immaginario psichedelico anni ’70, sui colori prismatici e sull’atmosfera da culto new-age degenerato. L’operazione mette in risalto i tratti distintivi del titolo: horror psicologico, ambientazione isolata, loop survival centrato sulla gestione delle risorse. Questa chiarezza di posizionamento è uno dei meriti del lavoro editoriale.

In secondo luogo, il supporto di Prime Matter ha garantito una distribuzione simultanea su PC e console di nuova generazione, evitando la frammentazione tipica di molti indie. Nonostante Brass Token sia uno studio piccolo, il lancio è avvenuto con un livello di polish sufficiente a evitare i problemi tecnici che spesso compromettono la ricezione critica. Inoltre, Prime Matter ha curato la linea di edizioni speciali, tra cui una “Limited Physical Edition” che include artbook e contenuti estetici extra, pensata per collezionisti e per consolidare l’identità visiva del gioco.

Nel panorama contemporaneo, dove gli indie rischiano di restare invisibili e i tripla A inseguono tendenze globali con budget mastodontici, The Chant e Brass Token incarnano una terza via: la scommessa sulla scala media, sulla personalità artistica e su una gestione produttiva sobria ma coerente. È un posizionamento rischioso, perché richiede di trovare un pubblico disposto a valorizzare l’atmosfera più della quantità, ma al tempo stesso è quello che consente a un team di raccontare storie meno convenzionali.

Trama coinvolgente ed ispirata

La trama di The Chant si apre con un incipit che allude più di quanto espliciti, lasciando al giocatore il compito di ricostruire un passato segnato da traumi personali e incomprensioni. La protagonista, Jess Briars, è una giovane donna che porta con sé un bagaglio di dolore irrisolto: la perdita della sorella, una famiglia segnata da dinamiche tossiche, un senso di colpa mai del tutto metabolizzato.

Il gioco non fornisce subito tutti i dettagli, ma dissemina indizi che, se colti, fanno emergere un profilo psicologico fragile, vicino al collasso. È proprio da questo punto di frattura che parte il viaggio: Jess accetta l’invito della sua amica Kim a partecipare a un ritiro spirituale su un’isola remota, convinta che quell’esperienza possa aiutarla a spezzare il circolo di sofferenza e a ritrovare equilibrio.

Il ritiro è organizzato dalla Prismic Science Spiritual Retreat, un culto new-age che unisce pratiche meditative, canti rituali e un linguaggio pseudoscientifico basato sull’energia prismatica. I partecipanti non sono molti: oltre a Jess e Kim, ci sono altri cinque individui, ciascuno con un passato tormentato e una personalità distinta.

Al centro del gruppo c’è Tyler, leader carismatico che incarna l’archetipo del guru moderno: eloquente, manipolatore, convinto di essere il mediatore tra i partecipanti e una forma superiore di consapevolezza. È lui a guidare i rituali, impartire istruzioni e instillare nei presenti la certezza che il “canto” collettivo sia la chiave per superare traumi e paure.

Il punto di svolta arriva molto presto. Durante una sessione di canto rituale, il gruppo entra in uno stato di trance collettiva. L’energia evocata però sfugge al controllo: invece di guarire, apre un varco verso il Gloom, una dimensione alternativa che funziona come amplificatore psichico delle emozioni negative. Le paure, i traumi e i sensi di colpa prendono forma concreta, diventando creature ostili e distorsioni ambientali che infestano l’isola.

La frattura tra i partecipanti è immediata: ciò che doveva essere un’esperienza di coesione si trasforma in un incubo di sospetto, panico e morte.

La trama da questo punto in avanti alterna sopravvivenza e scoperta. Jess deve esplorare l’isola, cercare risorse e capire come richiudere il varco aperto. Nel farlo, si scontra con creature mostruose che rappresentano non solo entità aliene, ma anche materializzazioni delle fragilità dei personaggi. L’orrore non è mai del tutto esterno: è il riflesso del male interiore che il Gloom amplifica e rende tangibile.

Si articoleranno poi anche i conflitti con gli altri membri del gruppo. Kim, l’amica che ha convinto Jess a partecipare, si rivela ben presto manipolata dal culto e incapace di distinguere la realtà dall’illusione indotta dal Gloom. Tyler, il leader, continua a predicare la necessità di completare il rituale, convinto che l’incidente sia parte del processo di “trascendenza”. Altri personaggi oscillano tra disperazione e follia, e alcuni finiranno inevitabilmente vittime delle proprie ossessioni.

In questo contesto, Jess diventa l’unica figura in grado di mantenere lucidità, ma al prezzo di confrontarsi continuamente con i propri traumi. Ogni area dell’isola è legata a un tema emotivo e a un frammento del passato di Jess: dall’infanzia segnata dalla perdita della sorella, ai sensi di colpa legati all’abbandono, fino alla paura costante di non essere all’altezza.

L’esplorazione non è mai fine a sé stessa: ogni documento trovato, ogni manufatto del culto, aggiunge tasselli a una storia più grande che lega il presente del ritiro ai tentativi precedenti di aprire il Gloom negli anni ’70.

Infatti, il climax narrativo si raggiunge quando Jess scopre che il rituale praticato sull’isola è stato già tentato in passato da un gruppo simile, i cui membri sono morti o risucchiati dal Gloom. I parallelismi tra passato e presente diventano espliciti, e Jess capisce che ciò che sta vivendo non è un evento unico, ma parte di un ciclo.

A questo punto, il giocatore deve prendere decisioni che influenzano l’esito finale: accettare o rifiutare la dimensione spirituale, privilegiare la mente, il corpo o lo spirito. Le scelte fatte determineranno quale sarà il destino ultimo della protagonista.

Intrecci tematici avvolgenti

Uno degli aspetti più interessanti di The Chant è la sua narrativa stratificata, che non si limita a raccontare una storia horror convenzionale, ma utilizza ambientazione e personaggi come veicoli per esplorare tematiche più profonde legate alla psiche, al trauma e al bisogno umano di appartenenza. La scrittura punta ad un tono allegorico e simbolico, dove ogni evento e ogni mostro riflette un conflitto interiore.

Tutto si articola intorno a due assi: da un lato l’esperienza personale di Jess, con il suo vissuto doloroso e il desiderio di guarigione; dall’altro, la dinamica collettiva del culto new-age che, dietro la facciata spirituale, nasconde forme di manipolazione e controllo.

Uno dei temi centrali è quello del trauma irrisolto. Jess è un personaggio che porta con sé un lutto non elaborato, e il Gloom diventa la materializzazione di quel dolore. Ogni incontro con i mostri non è quindi solo uno scontro fisico, ma anche un confronto con emozioni represse: paura, rabbia, colpa. Il gioco suggerisce che ignorare queste emozioni non le cancella, ma le alimenta fino a renderle ingestibili. Da questo punto di vista, The Chant si inscrive nella tradizione dell’horror psicologico, dove il vero nemico non è il mostro esterno, ma ciò che rappresenta.

Un altro tema ricorrente è la fragilità della comunità. Il ritiro sull’isola dovrebbe essere un’esperienza di condivisione e crescita collettiva, ma il contesto claustrofobico e il Gloom mettono in luce i conflitti latenti. Ogni personaggio porta con sé un bisogno di guarigione, ma il culto non offre una vera soluzione: promette scorciatoie spirituali che si rivelano fallimentari. Attraverso questa dinamica, il gioco esplora il rischio del pensiero settario, dove la ricerca di senso sfocia in fanatismo e autoannullamento. Tyler, il leader, incarna questo pericolo: con il suo carisma, riesce a convincere gli altri che la sofferenza è parte del cammino, anche quando diventa autodistruttiva.

La narrativa lavora molto anche sul piano metaforico. L’isola stessa è un organismo vivente che riflette lo stato mentale dei suoi abitanti. I colori psichedelici, le distorsioni visive e le creature innaturali non sono semplici trovate estetiche, ma simboli del caos interiore. La vegetazione che si contorce e ingloba manufatti umani rappresenta la lotta tra natura e artificio, tra subconscio e razionalità. I prismi energetici che i personaggi utilizzano sotto forma di ciondoli e amuleti sono a loro volta allegorie della volontà di incanalare emozioni complesse in forme ordinate, ma il loro fallimento mostra come il controllo totale sia impossibile.

Significativo è anche il dualismo tra guarigione e autodistruzione. L’intero ritiro nasce con l’idea di “purificare” mente, corpo e spirito, ma il processo si rivela tossico: l’energia che dovrebbe curare si trasforma in veleno. Il gioco suggerisce che ogni tentativo di eliminare completamente la sofferenza porta con sé il rischio di negare una parte fondamentale dell’esperienza umana. In questo senso, The Chant propone una visione filosofica: il dolore non va eliminato, ma affrontato e integrato.

La narrativa affronta anche il tema del potere della suggestione. I rituali, i canti e le pratiche del culto non sono solo folklore, ma rappresentano il modo in cui la mente umana può convincersi di realtà alternative. Quando il Gloom prende forma, non è chiaro se sia un fenomeno soprannaturale o il prodotto di una psicosi collettiva. Questa ambiguità narrativa, volutamente lasciata irrisolta, mantiene il giocatore in una costante incertezza. L’orrore nasce così non dalla certezza della minaccia, ma dal dubbio se la minaccia sia reale o autoindotta.

Un ulteriore elemento narrativo interessante è la ciclicità della storia. Attraverso documenti sparsi sull’isola, il giocatore scopre che rituali simili sono già stati tentati decenni prima, dal nonno di Tyler, con esiti disastrosi. Ciò introduce il tema della ripetizione del trauma: gli errori del passato tendono a ripresentarsi, a meno che qualcuno non trovi il coraggio di interrompere il ciclo. Jess diventa così il fulcro di una catena di fallimenti che si perpetua da generazioni, e il suo percorso è al tempo stesso personale e universale.

Infine, va sottolineato il ruolo dei finali multipli come espressione dei temi trattati. Ogni epilogo non è solo una chiusura narrativa, ma una dichiarazione filosofica: privilegiare la mente significa accettare una razionalità fredda che lascia irrisolti alcuni dolori; privilegiare il corpo implica una sopravvivenza concreta ma senza trascendenza; privilegiare lo spirito conduce a un superamento che rischia di annullare l’individualità. L’epilogo “completo”, che armonizza mente, corpo e spirito, diventa l’unica vera catarsi, ma è anche il più difficile da raggiungere.

Ottimo lavoro del comparto tecnico

Dal punto di vista tecnico e artistico, The Chant si colloca in quella fascia mediana che potremmo definire produzione AA: non dispone del budget e della complessità visiva di un tripla A, ma supera ampiamente le soluzioni tipiche degli indie più piccoli. Brass Token ha scelto come motore grafico Unreal Engine, una decisione che riflette un compromesso tra accessibilità produttiva e capacità di creare ambienti suggestivi con un team ridotto.

Dal lato puramente grafico, il titolo non raggiunge i picchi fotorealistici dei colossi moderni: i modelli poligonali sono discreti ma non particolarmente sofisticati, le animazioni risultano talvolta rigide, e la fisica degli oggetti è ridotta al minimo indispensabile. Tuttavia, la direzione artistica compensa ampiamente questi limiti. The Chant non punta a stupire con dettagli ultrarealistici, ma a creare un immaginario visivo coerente, disturbante e soprattutto psichedelico.

L’art design si ispira chiaramente all’estetica anni ’70, periodo storico in cui il culto new-age ha trovato il suo terreno fertile. Lo si nota nelle scelte cromatiche: palette sature, giochi di luce prismatici, contrasti forti tra colori caldi e freddi. Quando il Gloom invade l’isola, l’ambiente cambia tonalità in modo improvviso e straniante, con sfumature violacee, verdi acidi e blu elettrici che si sovrappongono al paesaggio naturale. Questo uso della luce e del colore non è solo decorativo, ma funziona come linguaggio narrativo, segnala i passaggi tra dimensione ordinaria e dimensione psichica, e mette il giocatore in uno stato di costante allerta.

Le creature del Gloom sono un altro esempio di art direction efficace. Non si tratta di mostri convenzionali, ma di entità ibride, distorsioni della realtà che ricordano forme animali, vegetali e umane. Il loro design punta ad evocare una familiarità disturbante: qualcosa che sembra quasi naturale, ma deformato quel tanto che basta da risultare inquietante. Anche qui la simbologia è centrale: ogni creatura è legata a un’emozione o a un trauma, il cui aspetto traduce visivamente concetti astratti come colpa, rabbia o paura dell’abbandono.

L’isola, unica ambientazione del gioco, è costruita con cura nel bilanciare elementi realistici e surreali. Spiagge, foreste, grotte e resti delle strutture del culto sono resi con sufficiente dettaglio da risultare credibili, ma quando il Gloom prende il sopravvento la realtà si piega: piante che si contorcono in forme innaturali, architetture che sembrano dissolversi nella luce, geometrie che sfidano la logica. Questa capacità di trasformare lo scenario in base al contesto narrativo è uno dei punti più riusciti del comparto tecnico, e mostra come Brass Token abbia sfruttato le potenzialità di Unreal Engine non tanto per inseguire il realismo, ma per giocare con la percezione.

Degno di nota è anche l’uso delle particelle e degli effetti visivi. Durante i rituali o i momenti di massima intensità, il gioco riempie lo schermo di scintille luminose, bagliori prismatici e flussi energetici che evocano un’estetica acid-influenced. Questi effetti, sebbene tecnicamente non complessi, creano un impatto visivo notevole, soprattutto perché contrastano con la sobrietà del resto dell’ambientazione. Si crea così una tensione visiva tra il quotidiano e lo straordinario, che riflette la tensione narrativa tra realtà e Gloom.

Il design dei personaggi, invece, risulta forse l’aspetto più debole dal punto di vista tecnico. I volti dei personaggi secondari soffrono di una certa staticità espressiva, e le animazioni facciali non riescono sempre a trasmettere la gamma emotiva richiesta dalla storia. Anche le animazioni corporee, sia nei combattimenti sia nei momenti esplorativi, appaiono talvolta legnose. Tuttavia, va sottolineato che si tratta di un limite comune a molte produzioni AA: con risorse limitate, è difficile eguagliare i livelli di motion capture dei grandi studi. Ma comunque stiamo parlando di un ottimo risultato.

Sul piano delle prestazioni tecniche, sulle console di ultima generazione, The Chant si difende bene, offrendo una resa stabile a 60 fps nella maggior parte delle situazioni, con cali rari e non invasivi.

Sound design: fiore all’occhiello

Nel sound design il gioco raggiunge uno dei suoi massimi punti di forza. Brass Token, fin dalle prime dichiarazioni, aveva sottolineato come l’audio sarebbe stato il vero cuore dell’esperienza, e non a caso si è affidata a un nome di spicco: Paul Ruskay, compositore noto e autore capace di creare atmosfere sospese, tra elettronica e sperimentazione, perfette per un horror psicologico che vuole evocare inquietudine più che spavento immediato.

La colonna sonora di The Chant è un viaggio sonoro che mescola sintetizzatori analogici, droni atmosferici, percussioni rituali e inserti vocali eterei. L’obiettivo non è accompagnare l’azione con un ritmo serrato, ma immergere il giocatore in una condizione emotiva costante di tensione e straniamento. In questo senso, la musica non è mai un semplice sottofondo, ma una componente narrativa che riflette lo stato psicologico dei personaggi e amplifica l’ambiguità tra realtà e percezione.

Durante le fasi di esplorazione libera, la musica si riduce a paesaggi sonori minimali, quasi impercettibili, che simulano il respiro della natura, mentre appena si entra in contatto con un’area contaminata dal Gloom, la colonna sonora cambia registro: i sintetizzatori si distorcono, le percussioni diventano ossessive e compaiono riverberi acidi che ricordano esperimenti di musica psichedelica anni ’70. Questo passaggio non è mai brusco, ma avviene per sovrapposizione graduale, creando la sensazione che l’isola stessa stia respirando o reagendo alla presenza del giocatore.

Il sound design non si limita però alla musica: anche l’ambientazione sonora dell’isola è curata in ogni dettaglio. I versi degli animali, il fruscio delle foglie, il suono delle onde o delle grotte sotterranee hanno una resa tridimensionale che sfrutta bene i sistemi di audio spaziale. Questa componente è fondamentale in un gioco che punta a isolare il giocatore e a fargli percepire costantemente di non essere mai al sicuro. Ciò che si sente fuori campo diventa spesso più spaventoso di ciò che si vede, come un ramo che si spezza, un sussurro lontano, un eco che non trova corrispettivo visivo.

Altro aspetto riuscito è il sound design delle creature, con un timbro sonoro ben identitario: gemiti strozzati, sibili metallici, ruggiti deformati digitalmente. Alcuni suoni sono volutamente disturbanti perché sfruttano frequenze non armoniche che creano disagio fisiologico nell’ascoltatore. Questo rende gli incontri non solo un’esperienza visiva, ma anche corporea: spesso si percepisce la minaccia prima con l’udito che con la vista, aumentando l’ansia anticipatoria.

Il lavoro sui dialoghi è più altalenante. Le voci sanno trasmettere insicurezza e vulnerabilità, ma talvolta la resa audio soffre di compressione evidente, soprattutto nei momenti più concitati, e i dialoghi secondari non hanno sempre la stessa qualità di quelli principali. Un elemento importante è l’uso dei silenzi. Ci sono sezioni in cui la colonna sonora si interrompe del tutto e restano solo i rumori naturali: un vento che cresce, passi che risuonano in un corridoio vuoto. Questi momenti amplificano la tensione, perché il giocatore viene lasciato solo con le proprie aspettative. La successiva esplosione sonora, quando arriva, ha quindi un effetto ancora più destabilizzante.

Per concludere, degna di nota è la coerenza tra sound design e art design. I colori psichedelici, le distorsioni visive e le forme innaturali del Gloom sono accompagnati da suoni altrettanto distorti e innaturali, rendendo The Chant un’esperienza sinestetica: ciò che si vede e ciò che si sente non sono separati, ma concorrono a creare un’unica atmosfera sensoriale disturbante.

World building e gameplay si fondono

Uno degli aspetti più interessanti di The Chant è l’interazione tra world building e gameplay, ovvero come l’ambientazione non sia solo sfondo estetico, ma parte integrante della meccanica di gioco e dell’esperienza narrativa. L’isola è concepita come un organismo quasi vivente, con zone che cambiano in base agli eventi, alle azioni del giocatore e al manifestarsi del Gloom. Questa concezione rende il world building dinamico.

L’isola appare inizialmente come un rifugio naturale e accogliente, con spiagge sabbiose, boschi fitti e strutture abbandonate del culto. Tuttavia, man mano che Jess esplora e il Gloom si manifesta, la percezione dello spazio cambia: sentieri familiari si deformano, la vegetazione si contorce, e la geometria degli edifici diventa instabile. Non esistono zone completamente sicure, e il mondo stesso diventa un personaggio, ostile e mutevole, che comunica attraverso suoni, luci e simboli visivi.

Il gameplay di The Chant si colloca nell’ambito del survival horror, con elementi di esplorazione, risoluzione di enigmi e combattimento. La gestione delle risorse è cruciale: munizioni limitate, cure scarse e oggetti chiave distribuiti con parsimonia obbligano il giocatore a pianificare le proprie azioni, incentivando l’osservazione attenta dell’ambiente e la memorizzazione dei percorsi, aumentando la tensione e l’immersione. Non si tratta di un horror da jump scare, ma di un horror da ansia costante, dove ogni rumore o variazione ambientale può avere significato.

Gli enigmi presenti nel gioco sono strettamente legati all’ambientazione e alla narrativa. Molti richiedono di interpretare simboli, comprendere legami tra eventi passati e presenti, e utilizzare strumenti rituali in modo corretto. La complessità degli enigmi varia: alcuni sono lineari e facilmente intuibili, altri richiedono osservazione meticolosa e deduzione logica, spesso combinando informazioni trovate in diari, registrazioni audio o lettere sparse sull’isola.

Un elemento distintivo del gameplay è il sistema di progressione dei poteri spirituali. Jess acquisisce abilità legate al Gloom, come percepire presenze invisibili, manipolare energia o attivare dispositivi rituali. Questi poteri non solo sono strumenti di gameplay, ma sono anche profondamente integrati nella narrativa: riflettono la tensione tra mente, corpo e spirito, e permettono di affrontare le minacce in modi diversi. La gestione di queste abilità introduce una componente strategica: usarle troppo spesso può avere conseguenze negative, enfatizzando il tema della responsabilità nell’interazione con forze più grandi di noi.

Il combat system è relativamente semplice ma efficace. I nemici non sono affrontabili sempre frontalmente: la maggior parte degli scontri richiede approccio tattico, sfruttando coperture, attacchi mirati e l’ambiente circostante. Ogni combattimento può essere rischioso e stressante, spingendo il giocatore a riflettere sulle proprie azioni e sulle priorità di sopravvivenza.

La struttura di The Chant è in gran parte semi-open world: l’isola è esplorabile liberamente in diverse aree collegate, ma alcune zone rimangono inaccessibili fino a quando Jess non acquisisce determinate abilità o oggetti chiave. Questa scelta di design bilancia la libertà d’esplorazione con la necessità di guidare la narrazione, evitando che il giocatore si perda completamente o che la tensione si diluisca. Inoltre, il gioco include percorsi multipli e finali differenti, in base alle scelte del giocatore e all’uso delle abilità, aumentando la rigiocabilità e rafforzando la sensazione che ogni azione abbia conseguenze tangibili sul mondo.

Anche il world building si carica di simbolismo, ed ogni oggetto, edificio o simbolo sull’isola ha un significato: può contenere informazioni sulla storia, essere parte di un enigma o segnalare la presenza del Gloom. Infine, va sottolineata la cura con cui il gioco gestisce ritmo e tensione, alternando tra esplorazione, enigmi e momenti di confronto con il Gloom, per evitare la monotonia, senza mai far scendere la tensione. Anche i momenti di apparente calma sono strumenti narrativi: il silenzio e la contemplazione di scenari inquietanti preparano il giocatore agli eventi successivi, creando un ciclo costante di ansia e sollievo che rafforza l’immersione.

Generalmente apprezzato

The Chant ha suscitato reazioni variegate sia dalla critica specializzata che dal pubblico. La critica principale riguarda soprattutto la gestione tecnica e alcune scelte di gameplay, ma il gioco ottiene punteggi positivi per atmosfera, narrativa e world building.

Un aspetto molto apprezzato riguarda l’atmosfera unica, con elogi su come l’esperienza sonora e visiva riesca a creare un senso costante di tensione, paura e disorientamento psicologico, senza affidarsi ai classici jump scare. Il lavoro sull’art design, la colonna sonora e il sound design sono considerati punti di riferimento per un horror psicologico contemporaneo.

L’approccio distorto degli ambienti, unito alla coerenza tra elementi narrativi e visivi, rende l’esperienza immersiva e memorabile. In particolare, l’uso di colori, luci e suoni per segnalare il Gloom o alterare la percezione dello spazio ha ricevuto elogi per la capacità di fondere estetica e gameplay.

Sul fronte narrativo, la critica riconosce la capacità del gioco di trattare temi maturi e complessi come fede, paranoia, trauma e alienazione. Il modo in cui il Gloom influenza l’isola e i personaggi permette di esplorare concetti astratti in maniera concreta e interattiva.

Alcune debolezze emergono dal punto di vista tecnico: animazioni legnose, espressività facciale ridotta, occasionali glitch e imprecisioni hanno ricevuto critiche. Il comparto grafico è considerato solido, ma non eccezionale, con ambienti dettagliati ma personaggi e creature non sempre all’altezza delle aspettative moderne.

Il gameplay riceve una critica mista. Il sistema di combattimento, pur funzionando, viene percepito come semplice o ripetitivo e non sempre genera il livello di sfida previsto. Gli enigmi, seppur ben integrati nel contesto narrativo, talvolta risultano troppo lineari, con soluzioni intuibili che possono spezzare il ritmo dell’esplorazione. Alcune sezioni dell’isola possono risultare frammentate, con percorsi bloccati o mal segnalati che creano confusione.

La gestione dei dialoghi è un altro elemento divisivo: se da un lato la recitazione vocale è convincente, la qualità audio dei dialoghi minori e la mancanza di espressività facciale talvolta limitano l’impatto emotivo delle interazioni. Alcuni critici hanno notato anche una certa ridondanza narrativa, con concetti reiterati più volte senza variazioni sostanziali, rischiando di appesantire la narrazione.

Un punto forte unanimemente riconosciuto è la coesione tra world building e gameplay. L’isola non è solo un ambiente esplorabile, ma un’entità che reagisce alle azioni del giocatore. La gestione dei poteri spirituali, la presenza del Gloom e l’alternanza tra momenti di calma e tensione rendono il gioco immersivo e coinvolgente. Dal punto di vista dell’innovazione, The Chant è considerato un tentativo riuscito di portare il survival horror verso un approccio più psicologico.

Infine, il bilanciamento tra tensione e frustrazione è generalmente positivo, ma non perfetto. Alcune sezioni con il Gloom possono risultare ripetitive o troppo punitive per chi non pianifica attentamente l’uso delle risorse e delle abilità. Allo stesso tempo, i momenti di apparente calma sono efficaci nel creare ansia anticipatoria, ma talvolta la mancanza di segnali chiari può portare a disorientamento.

The Chant

“Dopo aver analizzato The Chant nei suoi vari aspetti, la nostra valutazione si concentra sull’esperienza complessiva e sull’impatto emotivo che il gioco lascia. The Chant è un esempio molto interessante di horror psicologico contemporaneo, che non si limita a riproporre schemi già visti, ma costruisce un’atmosfera e un senso di tensione profondamente radicati nella narrativa e nel mondo di gioco. La fusione tra il Gloom come entità narrativa e le abilità spirituali di Jess crea una dinamica che va oltre il semplice “combatti e sopravvivi”: il giocatore è chiamato a interpretare simboli, a gestire risorse e poteri, e a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Questa complessità, unita alla qualità dell’art design e del sound design, rende il gioco intellettualmente e emotivamente stimolante, cosa non frequente nei survival horror di media produzione. Abbiamo apprezzato senz’altro l’esperienza di esplorazione, intensa e spesso disturbante, trovando particolarmente riuscito il modo in cui il mondo reagisce alle azioni del giocatore: il mondo di gioco non è allora solo uno scenario, ma un vero e proprio personaggio narrativo. Dal punto di vista tecnico, le animazioni legnose e l’espressività facciale migliorabile interrompono talvolta l’illusione, ma non in maniera tale da compromettere la tensione o la fruizione complessiva, creando un buon compromesso tra ambizione artistica e limiti del budget, puntando su atmosfera, suoni e interazione con l’ambiente. Il tutto è condito da un comparto audio che è il vero cuore del gioco. La musica e il sound design non accompagnano semplicemente le azioni, ma guidano emozioni e percezioni, contribuendo a costruire suspense e ansia in maniera costante. Insieme all’uso strategico dei silenzi, si va a colpire direttamente il livello esperienziale del giocatore. Un altro elemento degno di nota è la capacità del gioco di trattare temi complessi. La religione, la paranoia, il trauma psicologico e il confine tra realtà e allucinazione sono affrontati con sensibilità e profondità. Questo non solo arricchisce la trama, ma permette al giocatore di riflettere sul ruolo della percezione e della mente umana in situazioni estreme. La presenza di finali multipli e percorsi diversi amplifica questa dimensione, dando reale peso alle scelte del giocatore. Il retrogusto anni ’70 si percepisce chiaramente e accompagna perfettamente il filo narrativo. Personalmente, la mia valutazione è molto positiva. The Chant è un titolo che, al netto di alcune meccaniche migliorabili, mostra un altissimo potenziale. È un gioco che rimane nella memoria non per l’azione o per il colpo di scena, ma per la tensione costante, l’atmosfera unica e il world building coerente. È un titolo che consiglio a chi cerca un survival horror che stimoli mente ed emozioni, non solo riflessi e adrenalina, e che riuscirà a catturare con una storia coinvolgente quanto un ottimo film, dimostrando che non bisogna essere unicamente una produzione AAA per essere competitivi in un mercato sempre più vasto. Provatelo e non avrete alcun rimpianto.”

PRO

  • Atmosfera intensa e coinvolgente, che combina art design, sound design e world building.
  • World building dinamico e coerente, che rende l’isola un organismo reattivo alle azioni del giocatore, con percorsi che cambiano, oggetti ed enigmi ben integrati nella narrativa.
  • Narrativa psicologica e tematiche mature. Il gioco affronta concetti complessi come religione, paranoia, trauma e alterazione della percezione, offrendo spunti di riflessione e una storia stratificata, supportata da finali multipli che premiano le scelte del giocatore.
  • Gameplay: le abilità di Jess non sono solo strumenti ludici, ma estensioni narrative, creando un legame tra meccanica e storia. La gestione dei poteri richiede strategia e tensione.
  • Sound design eccellente. Effetti ambientali e silenzi sono usati magistralmente per costruire suspense e ansia, contribuendo in modo decisivo all’immersione e rendendo il comparto sonoro il vero punto di forza del titolo.
  • Rigiocabilità, favorita dai finali multipli che dipendono dalle scelte personali del giocatore.

CON

  • Limiti tecnici, come animazioni legnose, espressività facciale ridotta, glitch minori e collisioni talvolta imprecise. Non compromettono però la validità dell’esperienza.
  • Combat system semplice, che per alcuni può risultare ripetitivo.
  • Enigmi talvolta lineari: alcuni puzzle sono intuitivi e poco stimolanti, spezzando leggermente il ritmo dell’esplorazione.
  • Dialoghi e personaggi secondari poco espressivi: nonostante una recitazione vocale convincente per il protagonista, i personaggi minori e i dialoghi secondari talvolta non riescono a trasmettere pienamente l’emotività della storia.
SCORE: 8

8/10

From the moment I first held an NES controller, followed by the N64, my passion for video games began. However, it was during the '90s, with the release of the PlayStation, that my love for the medium truly flourished. While my heart beats for the horror genre in all its variations, I approach every video game as an immersive world to lose myself in—much like a captivating book I long to read cover to cover, or a dream I never wish to wake from.