Un’esperienza sorprendente, davvero strana e un po’ grottesca
Sergei Kliuchnikov, in arte Smek, ci ha donato un’esperienza sorprendente, bizzarra e a tratti disturbante ma anche riflessiva, con il suo M City, non ancora disponibile e senza una data ufficiale di uscita.
Sebbene non si sappia molto di questo gioco, voglio parlarvene per più ragioni. La prima è quella che ho trattato nell’articolo sulla dura vita dei solo developer e, tenendo fede a ciò che ho sostenuto lì, sono felice di dare visibilità e creare l’occasione di far conoscere chi si impegna nel portare un progetto creato da zero e in totale solitudine.
Inoltre, ho deciso di parlarvi di M City perché mi ha dato dei buoni spunti di riflessione che approfondirò man mano. Ma iniziamo dai punti di forza, di questo insolito punta e clicca in 2D, interamento disegnato a mano da Smek.
Lo Storytelling di M City
Considero il lavoro di Smek sorprendente in particolar modo per il suo storytelling.
I personaggi sono vividi, espressivi, caratterizzati molto bene, grazie all’uso dei dialoghi e delle loro movenze. Mi ha colpito l’approfondimento e la caratterizzazione di ogni personaggio con cui si interagisce, anche se sono dialoghi brevi.
Ed è proprio per questo che ritengo Smek molto bravo a scrivere. In poche righe di dialogo si evincono dettagli e personalità degli abitanti di M City. C’è sempre una sottile ironia, spesso cinica, che ho adorato.
La storia in sé è lineare, ben scritta, originale per quanto riguarda ambientazione e stile, e comprendendo una sostanziale parte investigativa, c’è anche l’aspetto del mistero e del thriller, scritto bene anche quello. I puzzle sono intrattenenti e fattibili, anche se non banali.
Il protagonista, Manny, è sicuramente quello caratterizzato meglio e con più sfaccettature, non solo perché soffre di disturbo della personalità multipla. Un altro personaggio molto ben caratterizzato è Oliver, uno degli abitanti di M City, raffigurato come un ragazzo esile, dai capelli molto chiari, gli occhiali e l’atteggiamento composto.
Oliver è colui che lega con Manny perché ha la sua stessa profondità, la stessa sensibilità, ma soprattutto è intelligente. Non quanto il nostro protagonista, che, dotato di alte capacità analitiche, viene coinvolto nell’investigazione di alcune strane sparizioni e terribili delitti che stanno avvenendo in città. Manny non vede cose, vede informazioni.
Un altro One Man Band alle prese con un grande lavoro
Smek ha creato il gioco da solo, si definisce lui stesso un artista dilettante. Gli piace semplicemente inventare storie e disegnarle ed ha deciso di condividere la sua visione del gioco con il mondo.
La sua ispirazione deriva da Steve Gabry, creatore di Sally Face, un altro titolo realizzato in autonomia e che poi è diventato molto popolare.
Preso per assunto il merito di creare da zero un videogioco, soprattutto se si basa su una buona storia, dal punto di vista tecnico e soprattutto grafico, M City non è al top.
Si ha sin da subito la difficoltà a intuire le interazioni con gli oggetti a causa di un’interfaccia un po’ dozzinale e per quanto didascalica, all’inizio si fatica molto a partire. Nonostante non ci siano molti dettagli o molti hot spot, mi sono bloccata al primo livello.
Mi perdonerà Smek se rivelo che l’albero a sinistra della primissima scena contiene anche un rametto che a me era completamente sfuggito.
Una volta entrati nell’ottica con cui è stato concepito il gioco, tuttavia, sarà più facile proseguire.
Le criticità tecniche sono per lo più legate al sistema di creazione del gioco. Realizzarlo in un motore grafico più moderno come Unity o Godot piuttosto che in Flash darebbe maggior controllo dell’esperienza utente e la possibilità di trasportarlo anche su altre piattaforme. Una versione di M City per mobile sarebbe perfetta.
Ma come abbiamo già detto, il punto di forza di M City non è l’aspetto tecnico quanto piuttosto quello narrativo.
Graficamente è peculiare ed espressivo, ma sembra più uno storyboard, una bozza, che un lavoro finito. Il tratto grezzo, tuttavia, conferisce un’unicità stilistica che con una maggior cura potrebbe anche funzionare ed essere apprezzato anche da chi, giustamente, si aspetta che un titolo abbia sia una buona scrittura che una buona grafica.
Tuttavia, ho apprezzato la capacità di M City di risulatre inquietante anche a fronte di un uso di colori vivaci e scenari luminosi.
Le strategie per sopperire alle basse capacità grafiche possono essere molte, ma Smek ha voluto dare un taglio tridimensionale al suo disegno 2D, impegnandosi sull’uso della prospettiva e delle proporzioni ma con un risultato non sempre sufficiente.
Il tratto acerbo denota forse un’esperienza di non lunga durata, ma si evince una forte volontà di fare le cose con una certa cura per i dettagli.
Ha un’ottima mano per quel che riguarda l’espressività dei personaggi, resa bene anche nei movimenti oltre che nei volti. Deve solo esercitarsi di più nel disegno.
Per quanto riguarda il gameplay, credo che l’ “active mode” sia un po’ macchinoso per chi, come me, è abituato al punta e clicca classico. L’utilizzo obbligatorio della tastiera, ad esempio, rende le scene di combattimento difficili e spesso poco intuitive.
Faccio un ulteriore appunto sull’uso della tastiera: dover usare la barra spaziatrice per proseguire nell’azione o nei momenti narrativi, lo trovo quanto meno bizzarro e insolito.
M City
“Qui accogliamo tutte le persone fuori dal comune.”
Queste sono le parole di Oliver, e vi è racchiuso il tema che più ho apprezzato del gioco, ovvero quello dell’inclusione.
In diverse occasioni, gli abitanti di M City sottolineano il fatto che per loro questa città è una sorta di rifugio, dove possono ricominciare da capo, con una nuova identità, e vivere in serenità, lontani dalle angherie e dal rifiuto della società.
M City è un ricettacolo di persone alla ricerca di accettazione, magari anche di affetto. Ma c’è una cosa importante di cui tenere conto, ovvero che le bizzarrie degli abitanti di questo particolare ritrovo di “casi umani”, lasciano presto intendere che sono pazzi, dopo tutto.
Conclusioni
Chi ha letto altri miei articoli forse avrà capito che ho un debole per i titoli bizzarri e fuori dalle righe. Adoro quei videogiochi che mi lasciano a bocca aperta, come mi è successo recentemente con The Many Pieces Of Mr. Coo, e M City, anche se tecnicamente non è di certo allo stesso livello, mi ha stupito.
Non posso sbottonarmi sul plot twist finale, ma è proprio lì che ho trovato conferma alla sensazione avuta non appena ho visto il trailer: c’è molto cinismo ed è tutto perfettamente coerente con quanto ripetuto all’interno del gioco e in merito al taglio che Smek ha voluto dare, ovvero bizzarro e disturbante, quasi grottesco.
È tutto molto acerbo e tecnicamente anacronistico, ma ho davvero apprezzato il potenziale, soprattutto quello narrativo. Un ulteriore personale apprezzamento va alla scelta di trattare tematiche importanti come quella dei disturbi mentali. Smek lo ha fatto con amara ironia, e mi è piaciuto.