L’uomo oltre la leggenda.

Tomonobu Itagaki

La recente scomparsa di Tomonobu Itagaki, avvenuta al termine di una lunga malattia, rappresenta una perdita profonda per un’industria che, negli ultimi anni, sembra essersi progressivamente allontanata da figure realmente autoriali, capaci di imporre una visione nitida, personale e distintiva. Non è venuto meno soltanto un game designer iconico, ma un intero modo di concepire il videogioco d’azione: un metodo, una disciplina creativa, un’idea ferma e quasi ascetica di ciò che significhi forgiare esperienze intense, organiche, modellate con precisione attorno al gesto del giocatore.

Figlio di una generazione di autori carismatici e irripetibili, Itagaki era una figura immediatamente riconoscibile – camicie sgargianti, giacca nera, occhiali scuri – ma dietro quell’estetica volutamente iconica si celava un rigore quasi monastico. La sua dedizione assoluta all’arte del videogioco, la capacità di scomporre il gameplay in micro-ingranaggi funzionali e la determinazione ferrea con cui inseguiva la perfezione emergono chiaramente nei materiali di lavorazione: osservarlo all’opera, analizzare ogni frame di un combattimento e intervenire per correggere sfumature impercettibili ai più, restituisce l’immagine di un’autorialità ormai rara – e, forse, oggi davvero irripetibile.

Dead or Alive: il coraggio di differenziarsi

Nato come progetto ambizioso in seno a Tecmo, Dead or Alive fu, sin dall’inizio, il frutto di una scommessa: creare un picchiaduro in grado di distinguersi in un mercato dominato da colossi come Tekken. Itagaki rispose con una filosofia centrata sul ritmo, sulla tridimensionalità del movimento e sulla spettacolarità controllata.

Il sistema triangolare del combattimento, la gestione dinamica delle arene e l’introduzione – tanto discussa quanto iconica – della jiggle physics definirono un’identità immediatamente riconoscibile. A questi elementi si aggiunse la possibilità di scagliare l’avversario fuori dalla zona principale di combattimento, trasformando l’arena stessa in uno strumento tattico.

DOA non fu mai un titolo indulgente: richiedeva padronanza, tempismo, capacità di lettura e puniva severamente l’approccio più caotico tipico di altri franchise. Pur non superando Tekken nell’immaginario globale, Dead or Alive conquistò nel tempo una fanbase solida e un proprio spazio culturale. E, nonostante le schermaglie mediatiche fra Itagaki e Harada, il rispetto reciproco fra i due autori rimase autentico, come lo stesso Harada ha confermato pubblicamente.

Tomonobu Itagaki

Ninja Gaiden: la dottrina della sfida

Se Dead or Alive rappresenta la scommessa, Ninja Gaiden incarna la dottrina. È nei capitoli guidati da Itagaki – in particolare Ninja Gaiden Black e Ninja Gaiden II – che emerge con più forza la sua idea di videogioco: controllo totale dell’azione, difficoltà come linguaggio narrativo, precisione come valore estetico.

La potenza della prima Xbox consentì di tradurre questa visione in un’esperienza brutalmente fluida, aggressiva, in cui il giocatore non è mai spettatore ma artefice. L’alternanza fulminea tra katana e shuriken, l’intelligenza dei nemici, l’assenza quasi ascetica di distrazioni marginali e l’introduzione, nel secondo capitolo, del sistema di smembramenti come meccanica funzionale e non gratuita: tutto contribuiva a costruire un action che non compiaceva, ma pretendeva.

In un’epoca in cui la difficoltà viene spesso percepita come barriera, Itagaki la concepiva come strumento di verità ludica: “la vittoria o la sconfitta appartengono al giocatore, non al gioco”.

Ninja Gaiden

La complessità di un autore: tra genialità e conflitti

Geniale, sì, ma anche imprevedibile. La sua personalità lo portò spesso a scontrarsi con colleghi e figure autorevoli dell’industria: dai battibecchi con Kamiya ai confronti più duraturi con Harada. Ma tali scontri, al di là della coloritura mediatica, rivelavano differenze di filosofia e non semplici divergenze caratteriali. Erano riflesso di un autore convinto che il videogioco dovesse essere progettato con rigore, identità e un punto di vista.

Esemplare manifestazione di questa complessità è la serie spin-off Dead or Alive Xtreme. Pur configurandosi come una deviazione più leggera ed edonistica rispetto alle opere principali, essa rivela nondimeno l’altra faccia della sua poetica: quella più spettacolare e consapevolmente commerciale, un’intuizione acuta del potere dell’immagine e del desiderio come strumenti narrativi all’interno del linguaggio videoludico.

Tomonobu Itagaki

Il metodo e la visione: il lascito di Tomonobu Itagaki

La morte di Itagaki non segna soltanto la scomparsa di un game designer, ma la perdita di un intero paradigma creativo: quello dell’autore che osa, che impone una visione anche a rischio di risultare controverso, e che crede fermamente che un videogioco debba comunicare prima di tutto attraverso il gameplay.

Le nuove generazioni di sviluppatori avrebbero molto da apprendere dal suo metodo: dalla centralità del feedback immediato alla responsabilità estetica legata alla precisione del gesto. E se oggi realtà come Team Ninja e Platinum Games cercano di reinterpretarne l’eredità – come testimoniano le loro produzioni più recenti – è perché quella lezione resta viva, necessaria, e in qualche modo urgente.

Ciao sono Luca un videogiocatore di 27 anni e vivo a Brescia. Sempre alla ricerca di nuove esperienze nel settore videoludico e cinematografico.